La forma del latte
Morbida, fresca, dolce, cremosa, di color bianco lucente. Di cosa stiamo parlando? Della ricotta naturalmente, la forma del latte (parafrasando il titolo di un celebre romanzo di Andrea Camilleri), un cibo delizioso quanto semplice e naturale che ha il gusto dei pascoli e del latte appena munto e la sapienza antica di gesti tramandati da infinite generazioni. Un passato lontanissimo e tenacemente conservato da quella cultura materiale che è l’altra faccia della cultura alta (testimonianze letterarie e artistiche) e altrettanto indispensabile a ricostruire i modi e le ragioni dell’agire umano, cioè le faticose tappe del cammino dell’umanità.
La ricotta viene prodotta dal siero del latte che residua dalla lavorazione del formaggio ( è dunque un latticino non un formaggio!) attraverso una leggera acidificazione e cottura a circa 80 gradi (da qui il suo nome, ri-cotta cioè cotta due volte) e ha origini talmente antiche che si perdono nel mito. I Greci attribuivano infatti la sua scoperta ad Aristeo, figlio del dio Apollo e della bellissima ninfa Cirene, che dalle Muse apprese le arti dell’apicoltura, della coltivazione dell’ulivo e della lavorazione del latte. Nel corso dei secoli troviamo altre due rifondazioni del mito, una pagana e l’altra cristiana.
La più antica testimonianza letteraria della ricotta appartiene al IX canto dell’Odissea, dove Ulisse incontra Polifemo. Il celebre episodio è indissolubilmente legato all’astuzia di Ulisse, all’esaltazione delle sue capacità (Ulisse acceca il gigante e non gli rivela il suo vero nome, scampando così alla vendetta), ma se proviamo a invertire la prospettiva in questi versi giganteggia (è proprio il caso di dirlo!) la figura di Polifemo. Mostro orrendo e crudele, dotato di una straordinaria quanto distruttiva forza e per nulla somigliante, dice Omero, “alla stirpe che di pan si nutre”, Polifemo è il primo produttore di formaggi di cui resta memoria. Abitante solitario di una grotta vicina al mare, circondata da pini altissimi e ombrose querce, vive tra pecore e capre, conche e catini dove munge il latte, graticci dove conserva i formaggi. Qui Ulisse, senza ascoltare il suggerimento dei prudenti compagni, che lo esortavano a raggiungere in fretta le navi prima che il mostro rientrasse, si ferma a mangiare del “rappreso latte”, cioè della incantevole e golosa ricotta.
Più avanti, nel mondo latino, latticini e formaggi escono dalla letteratura per entrare nella trattatistica, con opere dedicate all’agricoltura, all’allevamento degli armenti e alla pastorizia, mentre un canestro di ricotta risplende su uno sfondo azzurrissimo nella pittura parietale del tempio di Iside a Pompei.
A lungo la ricotta, per le qualità nutrizionali e il basso costo, fu considerata un alimento povero. Basti pensare che ancora nei primi anni del secolo scorso i pastori della campagna romana – il Lazio è tra i grandi produttori di latticini e di formaggi – ricevevano come compenso una lira e cinquanta centesimi al giorno insieme a pane, polenta, ricotta e sale. Nella società antica e medievale sui latticini e più in generale sui formaggi, come osserva lo storico Massimo Montanari, pesava infatti il pregiudizio verso l’alimento latte, che era collegato all’idea d’infanzia e, per estensione, a quella della barbarie. Insomma i consumatori di latte erano considerati dei primitivi, eredi di quella società pastorale che consumava cibi forniti dalla natura, mentre gli evoluti erano i rappresentanti di una società agricola che utilizzava cibi inventati dall’uomo a partire dai prodotti naturali (ad es. il pane e il vino). Naturalmente la linea di demarcazione passava tra chi poteva spendere per nutrirsi e chi a stento aveva di che sopravvivere. Per i primi i derivati del latte erano tutt’al più un “ornamento delle tavole”, cioè uno dei tanti ingredienti di vivande elaborate, per gli altri una fonte primaria di nutrizione.
È durante il Medio Evo che si avviò il lento processo di nobilitazione dei derivati del latte, grazie alle istituzioni monastiche che continuarono a produrre latticini e formaggi. È in questo contesto che avviene la seconda rifondazione, questa volta cristiana. Protagonista non è più il mitico e ottuso gigante omerico, ma San Francesco che, giunto nel Lazio per organizzare una rappresentazione vivente della nascita di Gesù, avrebbe insegnato ai pastori l’arte di produrre la ricotta. La leggenda, ingentilita dalla presenza del santo della fraternità dell’umiltà e della povertà, fissa dunque nell’immaginario il ruolo che i monaci ebbero durante il Medio Evo: non solo depositari della cultura classica, di cui continuavano instancabilmente a trascrivere e quindi conservare le opere, ma anche delle tecniche della produzione casearia.
Col tempo e soprattutto grazie alla grande creatività della cucina italiana, che ha valorizzato alimenti considerati marginali e inventato accostamenti inediti e talvolta felicemente arditi, la ricotta ha conquistato un ruolo di vera protagonista in cucina e sulla tavola, perché duttile, versatile e generosa. La ricotta infatti può essere ricavata dal latte di vacca, di pecora, di capra, di bufala – con relative lievi variazioni nella consistenza e nel gusto – può essere fresca, stagionata, infornata, affumicata, speziata. La si può mangiare così com’è, magari con una spolverata di zucchero o, meglio ancora, accompagnata da un colata di miele. A proposito di questa ghiottoneria racconta Giorgio Vasari, il primo storico dell’arte italiana con le sue cinquecentesche Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, un aneddoto riferito al grande Giotto. Ancora ragazzo, mentre badava al gregge, con una pietra appuntita disegnò una pecora su una “lastra piana e pulita”. Il caso volle che proprio allora passasse di lì Cimabue, pittore di grande fama, che si fermò ad ammirare quella figura incisa e subito, riconoscendone il genio, invitò il giovane pastore ad apprendere l’arte della pittura nella sua bottega. Leggendario incontro al quale qualcuno ha aggiunto un particolare ancora più leggendario: Giotto avrebbe offerto a quello sconosciuto di passaggio il suo pasto, della ricotta addolcita con il miele. Che sia vero o no questo fortuito incontro non conta molto e comunque ci piace credere a questa storia a lieto fine: l’intuito di Cimabue, il talento di un giovane pastore, il profilo realistico di una pecora e una ciotola di ricotta. Ingredienti questa volta non di una ricetta di cucina, ma di uno straordinario destino di artista.
Per la sua grande versatilità la ricotta si utilizza in cucina dagli antipasti ai dolci. La ricotta fresca si abbina infatti a tutti i colori e a tutti i sapori del mondo, perché non copre gli altri ingredienti, al contrario li esalta, li ammorbidisce, li lega. Discreta e generosa, ma sontuosa sempre, con il rosso del pomodoro dei cannelloni alla sorrentina, gli scrigni gialli dei ravioli, la morbidezza smeraldina degli spinaci o le sfumature malachite del cavolo nero dei toscanissimi gnudi (ravioli nudi, cioè senza il vestito di pasta), con il pallore della torta alle pere, l’oro e l’arancio dei canditi, il bruno del cioccolato, l’arcobaleno barocco della cassata siciliana. La ricotta stagionata cade invece come una nevicata di fiocchi saporosissimi sulla pasta alla Norma (un altro capolavoro, pari all’opera di Bellini che le ha dato il nome), sui fusilli alla bottarga di tonno dell’isola di Salina, sulle penne al pesto di pistacchi di Bronte.
Un’ultima curiosità prima di concludere. In molti paesi italiani si celebrano sagre legate a prodotti della gastronomia locale. Non sfugge a questo festoso omaggio popolare la ricotta e tra le sagre ad essa dedicate famosa è quella di Vizzini, il paese siciliano legato al nome e alla penna del grande Giovanni Verga. Inoltre in due località – Pietracatella, piccolo centro del Molise e Carlantino (Foggia) – si celebra una festa in onore della Madonna della ricotta. L’appellativo affettuoso attribuito a Maria, un modo di avvicinare il quotidiano all’eterno, è anche l’atto di devozione di chi doveva affrontare la transumanza, un viaggio che portava pastori e greggi verso il sud, dai pascoli estivi a quelli invernali, e che riservava incognite e pericoli.
Un esilio breve e con il ritorno certo, ma pur sempre un esilio. Così i pastori invocavano Maria a protezione e in segno di ringraziamento le offrivano la loro unica ricchezza, la ricotta.
Francesca Romana de’ Angelis
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