La pasta comprata
Il profumo del ragù della nonna mi svegliava la mattina presto, s’infilava prepotente nelle narici come una caramella alla menta. Con gli occhi ancora chiusi infilavo le pontofoline di stoffa e scendevo giù ancora in pigiama. In punta di piedi cercavo la panchetta, che di solito era rimasta davanti al camino dalla sera prima, l’avvicinavo al tavolo e ci salivo su: “Sono Pronta!”. Nonna Pippinella si girava, sbatteva la paletta di legno sul tavolo. Mi prendeva per un braccio e mi accompagnava energicamente alla porta. “Vatti subito a lavare e dopo che ti sei vestita… forse… e ho detto forse, ne riparliamo”. Salivo gli scalini due a due, mi bagnavo l’indice sotto l’acqua e lo passavo sugli occhi, m’infilavo il vestito del giorno prima e un attimo dopo ero nuovamente in postazione. Nonna era troppo svelta a fare la pasta, era questione di pochi minuti e se non ero abbastanza veloce, potevo scordarmi il posto di assistente, guadagnato con tanta fatica, con ripetute lagne alternate a strilli e qualche lacrima. Per prima cosa mi faceva passare la farina al setaccio. Sotto la retina del setaccio una magia di neve cadeva fitta, fitta, e formava una collina bianca, con tutti i granelli perfettamente separati. Nonna faceva un grosso buco al centro, poi rompeva le uova sbattendole sul tavolo, e con una sola mano le faceva cadere nel mezzo della collina, ad uno ad uno, senza neanche un pezzetto di buccia -ancora oggi ogni tanto ci provo e puntualmente mi ritrovo a pulire il piano di lavoro con un uovo spiaccicato sopra con tanto di bucce frantumate-. Appena finito l’impasto, lo avvolgeva in un panno bianco e lo lasciava riposare in un angolo del tavolo. A quel punto girava il sugo, ci intingeva un pezzo di pane e me lo porgeva. Era il riconoscimento più importante, nonna non faceva mai assaggiare le sue pietanze prima che tutti fossero seduti in tavola. Che dire …buonissimo! Caldo e morbido al palato, saporito e gustoso. Il paradosso di quei tempi è che la domenica si mangiava “la pasta comprata”. I nonni erano contadini e avevano abbondanza di grano e galline, uova e farina erano sempre a disposizione, la pasta fatta a mano era routine così nei giorni di festa nonna mi dava 500 lire e mi mandava a comprare la prosciutella (una specie di mortadella mista a pezzetti di prosciutto cotto) e gli spaghetti. Non andavo ancora a scuola eppure mi sentivo già una donna. Mimmo, il pizzicagnolo, un ometto timido sulla trentina, con gli occhiali spessi come il fondo di un bicchiere, prendeva una manciata di spaghetti (erano lunghissimi) li avvolgeva con un pezzo di carta e me li porgeva con estrema delicatezza, li maneggiava come fossero un vaso di cristallo. Tornavo a casa lentamente, braccio teso e pasta in mano, attenta al tesoretto della domenica. Il sugo era pronto, nonna li spezzava a metà li tuffava nell’acqua ed io passavo la ronda raccogliendo i commensali a tavola. Dopo la prima forchettata, finalmente nonno faceva un complimento: “Brava Pippinè sta pasta è proprio bona”.
MadamaRicetta
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