menubò: la raccolta
Michele GRAZIE!
Anche noi di MadamaRicetta vogliamo dare un saluto a Michele Ferrero, patron dell’industria dolciaria più grande d’Italia e inventore della crema più amata al mondo: la Nutella; che propio lo scorso anno ha festeggiato i 50anni. Ai funerali c’erano tutti dai vertici istituzionali al best seller dell’imprenditoria italiana, e, soprattutto tutta Alba. Come sempre c’è chi ne parla bene e chi ne parla male. I critici dicono che per pagare meno tasse nel 97 trasferì la sede a Bruxelles, ma ha anche arricchito una città intera, sempre contrario ai licenziamenti, ha messo insieme i contadini delle Langhe tenendo insieme una grande industria e salvaguardando il territorio. Ha fatto gli asili nido, le case per gli anziani, tenendo sempre in considerazione la vita dei suoi operai dentro e fuori la fabbrica. Noi di MadamaRicetta vogliamo ricordarlo semplicemente come l’ artefice di una delle invenzioni, a livello alimentare, più amata al mondo. La Nutella è troppo buona e difficilmente si riesce a non mangiarla se la si ha in qualche scaffale in cucina. E’ vero è assolutamente ipercalorica, ma cos’è che è così buono ed anche dietetico? Ogni cucchiaino regala un momento di felicità, ci consola e ci fa godere, mette allegria già solo a pronunciarne il nome. Un sapore intenso e inconfondibile, che regala dolci ricordi, quante volte da bambini ci hanno asciugato le lacrime con una fetta di pane e nutella. Quante volte ci ha curato le ferite d’amore e gli abbiamo lasciato addolcire esperienze troppo amare, e quanta compagnia ci ha fatto quando ci sentivamo soli. GRAZIE Michele!
100 giorni a Expo2015
A Roma – e non solo- i maturandi realizzano scatole colorate e girano per le strade della città per raccogliere fondi per la gita dei 100 giorni, 100 giorni al primo appuntamento importante della loro vita. Anche il Ministro Martina ha deciso di festeggiare i 100 giorni dall’apertura dell’Expo, un appuntamento importante per l’Italia, al quale ci credono un po’ tutti: Governo, Istituzioni, imprenditori e lavoratori. Si tratta di una giornata di lavoro vera e propria, organizzata dal Governo con Expo e Rai per il 7 febbraio presso l’Hangar Bicocca Pirelli di Milano, alla quale parteciperanno 500 esperti attraverso 40 tavoli, suddivisi secondo 4 aree tematiche: le dimensioni dello sviluppo tra equità e sostenibilità; cultura del cibo; agricoltura, alimenti e salute per un futuro sostenibile; la città umana, futuri possibili tra smart e slow city. Puntano tutti su Expo con decisione: per l’occupazione e per il turismo, e soprattutto per il rilancio del made in Italy nel mondo. Anche Coldiretti per l’occasione ha tracciato un bilancio dei primati conquistati nell’agroalimentare che ci pone al primo posto per numero di certificazioni alimentari, ottenuti grazie alle imprese che coltivano biologico, al rispetto della sicurezza alimentare con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici fuori norma, senza dimenticare il fatto che l’agricoltura italiana è tra le più sostenibili dal punto di vista ambientale per la ridotta emissione di gas ad effetto serra. “Un’agricoltura di straordinaria qualità, con caratteri distintivi unici, con una varietà e un’articolazione che non ha uguali al mondo- afferma il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo – questo modello produttivo replicabile in ogni parte del pianeta è il contributo per uno sviluppo sostenibile che l’Italia deve sapere offrire all’Expo”. Gli auguri sono arrivati da tutto il mondo, e anche da fuori, Samantha Cristoforetti, astronauta trentina dell’Agenzia Spaziale Europea, infatti ha inviato un messaggio augurale all’Esposizione Universale che si aprirà il 1 maggio 2015. All’appuntamento dei 100 giorni all’Expo sono previsti contributi straordinari, dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al regista Ermanno Olmi, dalla ministra europea Mogherini al Direttore generale della Fao Graziano da Silva, dal’ex Presidente del Brasile Lula al contributo straordinario di Papa Francesco che ha dedicato con un videomessaggio la sua riflessione di grandissima attualità sul diritto al cibo e tutela della terra. Auguri a Expo2015! Ed un invito a tutti noi a partecipare, per vedere e gustare le nostre eccellenze, e, perchè no, per vedere e gustare come mangiano gli altri.
MadamaRicetta
RIBELLARSI PRIMA DI DIVENTARE SCHIAVI DELLE MULTINAZIONALI
In ripubblicato per voi vi abbiamo segnalato la puntata di Report sul trattato transatlantico. Aggiungiamo questo articolo ben documentato di Lori Wallach, pubblicato in “Le Monde Diplomatique”, che permette di capire i gravi pericoli che il trattato transatlantico provecherebbe in Europa: E’ lungo ma ogni parola è importante.
Trattato transatlantico, un uragano che minaccia gli europei
di Lori Wallach*, Le Monde Diplomatique
Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri. Esso compariva già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai ventinove stati membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).
Divulgato in extremis, in particolare da Le Monde diplomatique, il documento sollevò un’ondata di proteste senza precedenti, costringendo i suoi promotori ad accantonarlo. Quindici anni più tardi, essa fa il suo ritorno sotto nuove sembianze. L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip) negoziato a partire dal luglio 2013 tra Stati uniti e Unione europea è una versione modificata del Mai. Esso prevede che le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi, sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti.
Secondo il calendario ufficiale, i negoziati non dovrebbero concludersi che entro due anni. Il Ttip unisce aggravandoli gli elementi più nefasti degli accordi conclusi in passato. Se dovesse entrare in vigore, i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti. Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, esso si applicherebbe per amore o per forza poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari. Ciò riprodurrebbe in Europa lo spirito e le modalità del suo modello asiatico, l’Accordo di partenariato transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in dodici paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.
Insieme, il Ttip e il Tpp formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune.
Tribunali appositamente creati
Dato che mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile, i negoziati intorno al Ttip e al Tpp si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di seicento consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori e ai rappresentanti dell’amministrazione. Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire. In uno slancio di candore, l’ex ministro del commercio statunitense Ronald («Ron») Kirk ha fatto valere l’interesse «pratico» di «mantenere un certo grado di discrezione di confidenzialità ». Ha sottolineato che l’ultima volta che la bozza di un accordo in corso di formalizzazione è stata resa pubblica, i negoziati sono falliti – un’allusione alla Zona di libero scambio delle Americhe (Ftaa), versione estesa dell’Accordo di libero scambio nordamericano (Nafta). Il progetto, difeso accanitamente da George W. Bush, fu svelato sul sito internet dell’amministrazione nel 2001. A Kirk, la senatrice Elizabeth Warren ribatte che un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato.
L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato statunitense-europeo all’attenzione del pubblico si comprende facilmente. Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora. Sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione: non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato. L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro. È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi.
L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore. Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati uniti per le loro scatole di tonno etichettate «senza pericolo per i delfini», per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare organismi geneticamente modificati (Ogm).
La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale. Sotto un tale regime, le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza attivate in questo o quel paese reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca mondiale e dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i «futuri profitti sperati» di una società. Questo sistema «investitore contro stato», che sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, è stato restaurato di soppiatto nel corso degli anni. In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname ecc.
Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata, tenuto conto degli interessi in gioco nel commercio transatlantico. Sul suolo statunitense sono presenti tremilatrecento aziende europee con ventiquattromila filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un pregiudizio commerciale. Un tale effetto a cascata supererebbe di gran lunga i costi causati dai trattati precedenti. Dal canto loro, i paesi membri dell’Unione europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.
Ufficialmente, questo regime doveva servire inizialmente a consolidare la posizione degli investitori nei paesi in via di sviluppo sprovvisti di un sistema giuridico affidabile; esso avrebbe permesso di fare valere i loro diritti in caso di esproprio. Ma l’Unione europea e gli Stati uniti non sono esattamente delle zone di non-diritto; al contrario, dispongono di una giustizia funzionale e pienamente rispettosa del diritto di proprietà. Ponendoli malgrado tutto sotto la tutela di tribunali speciali, il Ttip dimostra che il suo obiettivo non è quello di proteggere gli investitori ma di aumentare il potere delle multinazionali.
Processo per aumento del salario minimo
Ovviamente gli avvocati che compongono questi tribunali non devono rendere conto a nessun elettorato. Invertendo allegramente i ruoli, possono sia fungere da giudici che perorare la causa dei loro potenti clienti. Quello dei giuristi degli investimenti internazionali è un piccolo mondo: sono solo quindici a dividersi il 55% delle questioni trattate fino a oggi. Evidentemente, le loro decisioni sono inappellabili. I «diritti» che essi hanno il compito di proteggere sono formulati in modo deliberatamente approssimativo, e la loro interpretazione raramente tutela gli interessi della maggioranza. Come quello accordato all’investitore di beneficiare di un quadro normativo conforme alle sue «previsioni» – per il quale va inteso che il governo si vieterà di modificare la propria politica una volta che l’investimento ha avuto luogo. Quanto al diritto di ottenere una compensazione in caso di «espropriazione indiretta», ciò significa che i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali.
I tribunali riconoscono anche il diritto del capitale ad acquistare sempre più terre, risorse naturali, strutture, fabbriche, ecc. Non vi è nessuna contropartita da parte delle multinazionali: queste non hanno alcun obbligo verso gli Stati e possono avviare delle cause dove e quando preferiscono. Alcuni investitori hanno una concezione molto estesa dei loro diritti inalienabili. Si è potuto recentemente vedere società europee avviare cause contro l’aumento del salario minimo in Egitto o contro la limitazioni delle emissioni tossiche in Perú, dato che il Nafta serve in quest’ultimo caso a proteggere il diritto a inquinare del gruppo statunitense Renco. Un altro esempio: il gigante delle sigarette Philip Morris, contrariato dalla legislazione antitabacco dell’Uruguay e dell’Australia, ha portato i due paesi davanti a un tribunale speciale. Il gruppo farmaceutico americano Eli Lilly intende farsi giustizia contro il Canada, colpevole di avere posto in essere un sistema di brevetti che rende alcuni medicinali più accessibili. Il fornitore svedese di elettricità Vattenfall esige diversi miliardi di euro dalla Germania per la sua «svolta energetica», che norma più severamente le centrali a carbone e promette un’uscita dal nucleare.
Non ci sono limiti alle pene che un tribunale può infliggere a uno Stato a beneficio di una multinazionale. Un anno fa, l’Ecuador si è visto condannato a versare la somma record di 2 miliardi di euro a una compagnia petrolifera. Anche quando i governi vincono il processo, essi devono farsi carico delle spese giudiziarie e di varie commissioni che ammontano mediamente a 8 milioni di dollari per caso, dilapidati a discapito del cittadino. Calcolando ciò, i poteri pubblici preferiscono spesso negoziare con il querelante piuttosto che perorare la propria causa davanti al tribunale. Lo stato canadese si è così risparmiato una convocazione alla sbarra abrogando velocemente il divieto di un additivo tossico utilizzato dall’industria petrolifera.
Eppure, i reclami continuano a crescere. Secondo la Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), a partire dal 2000 il numero di questioni sottoposte ai tribunali speciali è decuplicato. Se il sistema di arbitraggio commerciale è stato concepito negli anni ’50, non ha mai servito gli interessi privati quanto a partire dal 2012, anno eccezionale in termini di depositi di pratiche. Questo boom ha creato un fiorente vivaio di consulenti finanziari e avvocati d’affari. Il progetto di un grande mercato americano-europeo è sostenuto da lungo tempo da Dialogo economico transatlantico (Trans-atlantic business dialogue, Tabd), una lobby meglio conosciuta con il nome di Trans-atlantic business council (Tabc). Creata nel 1995 con il patrocinio della Commissione europea e del ministero del commercio americano, questo raggruppamento di ricchi imprenditori è impegnato per un «dialogo» altamente costruttivo tra le élite economiche dei due continenti, l’amministrazione di Washington e i commissari di Bruxelles. Il Tabc è un forum permanente che permette alle multinazionali di coordinare i loro attacchi contro le politiche di interesse generale che restano ancora in piedi sulle due coste dell’Atlantico. Il suo obiettivo, pubblicamente dichiarato, è di eliminare quelle che definisce come «discordie commerciali» (trade irritants), vale a dire di operare sui due continenti secondo le stesse regole e senza interferenze da parte dei poteri pubblici.
«Convergenza regolativa» e «riconoscimento reciproco» fanno parte dei quadri semantici che Tabc brandisce per incitare i governi ad autorizzare i prodotti e i servizi che trasgrediscono le legislazioni locali. Ma invece di auspicare un semplice ammorbidimento delle leggi esistenti, gli attivisti del mercato transatlantico si propongono senza mezzi termini di riscriverle loro stessi. La Camera americana di commercio e BusinessEurope, due tra le più grandi organizzazioni imprenditoriali del pianeta, hanno richiesto ai negoziatori del Ttip di riunire attorno a un tavolo di lavoro un campionario di grossi azionisti e di responsabili politici affinché questi «redigano insieme i testi di regolamentazione» che avranno successivamente forza di legge negli Stati uniti e in Unione europea. C’è da chiedersi, del resto, se la presenza dei politici in questo laboratorio di scrittura commerciale sia veramente indispensabile…
Di fatto, le multinazionali mostrano una notevole franchezza nell’esporre le loro intenzioni. Sulla questione degli Ogm, ad esempio. Mentre negli Stati uniti uno stato su due pensa di rendere obbligatoria un’etichetta indicante la presenza di organismi geneticamente modificati in un alimento – misura auspicata dall’80% dei consumatori del paese –, gli industriali del settore agroalimentare, là come in Europa, spingono per l’interdizione di questo tipo di etichettatura. L’Associazione nazionale dei confettieri non usa mezzi termini: «L’industria statunitense vorrebbe che il Ttip progredisse su tale questione sopprimendo l’etichettatura Ogm e le norme relative alla tracciabilità». L’influente Associazione dell’industria biotecnologica (Biotechnology industry organization, Bio), di cui fa parte il colosso Monsanto, dal canto suo si indigna perché alcuni prodotti contenenti Ogm e venduti negli Stati uniti possano subire un rifiuto sul mercato europeo. Essa desidera di conseguenza che il «baratro che si è scavato tra la deregolamentazione dei nuovi prodotti biotecnologici negli Stati uniti e la loro accoglienza in Europa» sia presto colmato. Monsanto e i suoi amici non nascondono la speranza che la zona di libero scambio transatlantico permetta di imporre agli europei il loro «catalogo ricco di prodotti Ogm in attesa di approvazione e di utilizzo».
Le rivelazioni sul Datagate
L’offensiva non è meno vigorosa sul fronte della privacy. La Coalizione del commercio digitale (Digital Trade Coalition, Dtc), che raggruppa industriali del Net e del hi-tech, preme sui negoziatori del Ttip per togliere le barriere che impediscono ai flussi di dati personali di riversarsi liberamente dall’Europa verso gli Stati uniti. I lobbisti si spazientiscono: «L’attuale punto di vista dell’Unione, secondo cui gli Stati uniti non forniscono una protezione “adeguata” della privacy, non è ragionevole».
Alla luce delle rivelazioni di Edward Snowden sul sistema di spionaggio dell’Agenzia nazionale di sicurezza (National security agency, Nsa), tale opinione risoluta è certo interessante. Tuttavia, non eguaglia la dichiarazione dell’Us council for international business (Uscib), un gruppo di società che, seguendo l’esempio di Verizon, ha massicciamente rifornito la Nsa di dati personali: «L’accordo dovrebbe cercare di circoscrivere le eccezioni, come la sicurezza e la privacy, al fine di assicurarsi che esse non siano ostacoli cammuffati al commercio».
Anche le norme sulla qualità nell’alimentazione sono prese di mira. L’industria statunitense della carne vuole ottenere la soppressione della regola europea che vieta i polli disinfettati al cloro. All’avanguardia di questa battaglia, il gruppo Yum!, proprietario della catena di fast food Kentucky fried chicken (Kfc), può contare sulla forza d’urto delle organizzazioni imprenditoriali. L’Associazione nordamericana della carne protesta: «L’Unione autorizza soltanto l’uso di acqua e vapore sulle carcasse». Un altro gruppo di pressione, l’Istituto americano della carne, deplora «il rifiuto ingiustificato [da parte di Bruxelles] delle carni addizionate di beta-agonisti, come il cloridrato di ractopamina». La ractopamina è un medicinale utilizzato per gonfiare il tasso di carne magra di suini e bovini. A causa dei rischi per la salute degli animali e dei consumatori, è stata bandita in centosessanta paesi, tra cui gli stati membri dell’Unione, la Russia e la Cina. Per la filiera statunitense del suino, tale misura di protezione costituisce una distorsione della libera concorrenza a cui il Ttip deve urgentemente porre fine. Il Consiglio nazionale dei produttori di suino (National pork producers council, Nppc) minaccia: «I produttori americani di carne di suino non accetteranno altro risultato che non sia la rimozione del divieto europeo della ractopamina».
Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, gli industriali raggruppati in BusinessEurope, denunciano le «barriere che colpiscono le esportazioni europee verso gli Stati uniti, come la legge americana sulla sicurezza alimentare». Dal 2011, essa autorizza infatti i servizi di controllo a ritirare dal mercato i prodotti d’importazione contaminati. Anche in questo caso, i negoziatori del Ttip sono pregati di fare tabula rasa. Si ripete lo stesso con i gas a effetto serra. L’organizzazione Airlines for America (A4A), braccio armato dei trasportatori aerei statunitensi, ha steso una lista di «regolamenti inutili che portano un pregiudizio considerevole alla [loro] industria» e che il Ttip, ovviamente, ha la missione di cancellare. Al primo posto di questa lista compare il sistema europeo di scambio di quote di emissioni, che obbliga le compagnie aeree a pagare per il loro inquinamento a carbone. Bruxelles ha provvisoriamente sospeso questo programma; A4A esige la sua soppressione definitiva in nome del «progresso».
Ma è nel settore della finanza che la crociata dei mercati è più virulenta, Cinque anni dopo l’esplosione della crisi dei subprime, i negoziatori americani ed europei si sono trovati d’accordo sul fatto che le velleità di regolamentazione dell’industria finanziaria avevano fatto il loro tempo. Il quadro che essi vogliono delineare prevede di levare tutti i paletti in materia di investimenti a rischio e di impedire ai governi di controllare il volume, la natura e l’origine dei prodotti finanziari messi sul mercato. Insomma si tratta puramente e semplicemente di cancellare la parola «regolamentazione».
Da dove viene questo stravagante ritorno alle vecchie idee thatcheriane? Esso risponde in particolare ai desideri dell’Associazione delle banche tedesche, che non manca di esprimere le sue «inquietudini» a proposito della tuttavia timida riforma di Wall street adottata all’indomani della crisi del 2008. Uno dei suoi membri più intraprendenti sul tema è la Deutsche bank, che ha tuttavia ricevuto nel 2009 centinaia di miliardi di dollari dalla Federal reserve statunitense in cambio di titoli addossati a crediti ipotecari (10). Il mastodonte tedesco vuole farla finita con la regolamentazione Volcker, chiave di volta della riforma di Wall street, che a suo avviso sovraccarica un «peso troppo grave sulle banche non statunitensi». Insurance Europe, punta di lancia delle società assicurative europee, dal canto suo auspica che il Ttip «sopprima» le garanzie collaterali che dissuadono il settore dall’avventurarsi negli investimenti ad alto rischio. Quanto al Forum dei servizi europei (l’organizzazione padronale di cui fa parte la Deutsche bank), questi si agita dietro le quinte delle trattative transatlantiche affinché le autorità di controllo statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle grandi banche straniere operanti sul loro territorio.
Da parte degli Usa, si spera soprattutto che il Ttip affossi davvero il progetto europeo di tassare le transazioni finanziarie. La questione pare essere già intesa, dal momento che la stessa Commissione europea ha giudicato tale tassa non conforme alle regole del Wto (11). Nella misura in cui la zona di libero scambio transatlantica promette un liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto, e dato che il Fondo monetario internazionale (Fmi) si oppone a qualunque forma di controllo sui movimenti di capitali, negli Stati uniti la debole «Tobin tax» non preoccupa più nessuno.
Ma le sirene della deregolamentazione non si fanno ascoltare solo nell’industria finanziaria. Il Ttip intende aprire alla concorrenza tutti i settori «invisibili» e di interesse generale. Gli stati firmatari si vedranno costretti non soltanto a sottomettere i loro servizi pubblici alla logica del mercato, ma anche a rinunciare a qualunque intervento sui fornitori stranieri di servizi che ambiscono ai loro mercati. I margini politici di manovra in materia di sanità, energia, educazione, acqua e trasporti si ridurrebbero progressivamente.
La febbre commerciale non risparmia nemmeno l’immigrazione, poiché gli istigatori del Ttip si arrogano il potere di stabilire una politica comune alle frontiere – senza dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio da vendere, a svantaggio degli altri.
Da qualche mese si è intensificato il ritmo dei negoziati. A Washington, si hanno buone ragioni di credere che i dirigenti europei siano pronti a qualunque cosa per ravvivare una crescita economica moribonda, anche a costo di rinnegare il loro patto sociale. L’argomento dei promotori del Ttip, secondo cui il libero scambio deregolamentato faciliterebbe i commerci e sarebbe dunque creatore di impieghi, apparentemente ha maggior peso del timore di uno scisma sociale. Le barriere doganali che sussistono ancora tra l’Europa e gli Stati uniti sono tuttavia già «abbastanza basse», come riconosce il rappresentante statunitense al commercio (12). I fautori del Ttip ammettono che il loro principale obiettivo non è quello di alleggerire i vincoli doganali, comunque insignificanti, ma di imporre «l’eliminazione, la riduzione e la prevenzione di politiche nazionali superflue (13)», dal momento che viene considerato «superfluo» tutto ciò che rallenta la circolazione delle merci, come la regolazione della finanza, la lotta contro il riscaldamento climatico o l’esercizio della democrazia. In realtà i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip non si attardano per nulla sulle sue ricadute sociali ed economiche.
Un rapporto frequentemente citato, proveniente dal Centro europeo di economia politica internazionale (European centre for international political economy, Ecipe), afferma con l’autorevolezza di un Nostradamus da scuola commerciale che il Ttip darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno… a partire dal 2029 (14). A dispetto del suo ottimismo, lo stesso studio valuta ad appena 0,06% l’aumento del prodotto interno lordo (Pil) in Europa e negli Stati uniti in seguito all’entrata in vigore del Ttip. Ancora, un tale «impatto» è decisamente non realistico dato che i suoi autori postulano che il libero scambio «dinamizza» la crescita economica: una teoria regolarmente confutata dai fatti. Un aumento così infinitesimale sarebbe d’altronde impercettibile. A titolo di paragone, la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati uniti una crescita del Pil otto volte più importante.
Pressoché tutti gli studi sul Ttip sono stati finanziati da istituzioni favorevoli al libero scambio o da organizzazioni imprenditoriali, ragione per cui i costi sociali del trattato non appaiono mai, così come le sue vittime dirette, che potrebbero tuttavia ammontare a centinaia di milioni. Ma i giochi non sono ancora conclusi. Come hanno mostrato le disavventure del Mai, del Ftaa e alcuni cicli di negoziati del Wto, l’utilizzo del «commercio» come cavallo di Troia per smantellare le protezioni sociali e instaurare una giunta di incaricati d’affari in passato ha fallito a più riprese. Nulla ci dice che non possa succedere la stessa cosa anche questa volta.
* Direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, Washington, DC, www.citizen.org.
questo articolo del giornale francese “Le Monde diplomatique” (è stato tradotto in italiano) dal Prof. Gerard Lutte.
Io e Nonna
Una storia, tante storie, inviateci i ricordi che volete condividere su MadamaRicetta a madamaricetta@gmail.com
La pasta comprata
Il profumo del ragù della nonna mi svegliava la mattina presto, s’infilava prepotente nelle narici come una caramella alla menta. Con gli occhi ancora chiusi infilavo le pontofoline di stoffa e scendevo giù ancora in pigiama. In punta di piedi cercavo la panchetta, che di solito era rimasta davanti al camino dalla sera prima, l’avvicinavo al tavolo e ci salivo su: “Sono Pronta!”. Nonna Pippinella si girava, sbatteva la paletta di legno sul tavolo. Mi prendeva per un braccio e mi accompagnava energicamente alla porta. “Vatti subito a lavare e dopo che ti sei vestita… forse… e ho detto forse, ne riparliamo”. Salivo gli scalini due a due, mi bagnavo l’indice sotto l’acqua e lo passavo sugli occhi, m’infilavo il vestito del giorno prima e un attimo dopo ero nuovamente in postazione. Nonna era troppo svelta a fare la pasta, era questione di pochi minuti e se non ero abbastanza veloce, potevo scordarmi il posto di assistente, guadagnato con tanta fatica, con ripetute lagne alternate a strilli e qualche lacrima. Per prima cosa mi faceva passare la farina al setaccio. Sotto la retina del setaccio una magia di neve cadeva fitta, fitta, …leggi tutto
Antesignani del branch: la colazione di Pasqua
I romani tendono ad accaparrarsi la tradizione della colazione di Pasqua, a colpi di coratella, corallina e carciofi. Ma quella tradizione in effetti è diffusa in tutt’Italia ed è legata a un rito religioso che rappresenta la fine del digiuno quaresimale e la celebrazione del ritorno alla vita. Una colazione allegra, colorata e piena di sorprese, dolci e salate che coinvolge tutti cattolici praticanti e non. Io la ricordo nella casa di campagna della nonna, con un misto di ansia e felicità. …leggi tutto
La pasta comprata
Il profumo del ragù della nonna mi svegliava la mattina presto, s’infilava prepotente nelle narici come una caramella alla menta. Con gli occhi ancora chiusi infilavo le pontofoline di stoffa e scendevo giù ancora in pigiama. In punta di piedi cercavo la panchetta, che di solito era rimasta davanti al camino dalla sera prima, l’avvicinavo al tavolo e ci salivo su: “Sono Pronta!”. Nonna Pippinella si girava, sbatteva la paletta di legno sul tavolo. Mi prendeva per un braccio e mi accompagnava energicamente alla porta. “Vatti subito a lavare e dopo che ti sei vestita… forse… e ho detto forse, ne riparliamo”. Salivo gli scalini due a due, mi bagnavo l’indice sotto l’acqua e lo passavo sugli occhi, m’infilavo il vestito del giorno prima e un attimo dopo ero nuovamente in postazione. Nonna era troppo svelta a fare la pasta, era questione di pochi minuti e se non ero abbastanza veloce, potevo scordarmi il posto di assistente, guadagnato con tanta fatica, con ripetute lagne alternate a strilli e qualche lacrima. Per prima cosa mi faceva passare la farina al setaccio. Sotto la retina del setaccio una magia di neve cadeva fitta, fitta, e formava una collina bianca, con tutti i granelli perfettamente separati. Nonna faceva un grosso buco al centro, poi rompeva le uova sbattendole sul tavolo, e con una sola mano le faceva cadere nel mezzo della collina, ad uno ad uno, senza neanche un pezzetto di buccia -ancora oggi ogni tanto ci provo e puntualmente mi ritrovo a pulire il piano di lavoro con un uovo spiaccicato sopra con tanto di bucce frantumate-. Appena finito l’impasto, lo avvolgeva in un panno bianco e lo lasciava riposare in un angolo del tavolo. A quel punto girava il sugo, ci intingeva un pezzo di pane e me lo porgeva. Era il riconoscimento più importante, nonna non faceva mai assaggiare le sue pietanze prima che tutti fossero seduti in tavola. Che dire …buonissimo! Caldo e morbido al palato, saporito e gustoso. Il paradosso di quei tempi è che la domenica si mangiava “la pasta comprata”. I nonni erano contadini e avevano abbondanza di grano e galline, uova e farina erano sempre a disposizione, la pasta fatta a mano era routine così nei giorni di festa nonna mi dava 500 lire e mi mandava a comprare la prosciutella (una specie di mortadella mista a pezzetti di prosciutto cotto) e gli spaghetti. Non andavo ancora a scuola eppure mi sentivo già una donna. Mimmo, il pizzicagnolo, un ometto timido sulla trentina, con gli occhiali spessi come il fondo di un bicchiere, prendeva una manciata di spaghetti (erano lunghissimi) li avvolgeva con un pezzo di carta e me li porgeva con estrema delicatezza, li maneggiava come fossero un vaso di cristallo. Tornavo a casa lentamente, braccio teso e pasta in mano, attenta al tesoretto della domenica. Il sugo era pronto, nonna li spezzava a metà li tuffava nell’acqua ed io passavo la ronda raccogliendo i commensali a tavola. Dopo la prima forchettata, finalmente nonno faceva un complimento: “Brava Pippinè sta pasta è proprio bona”.
MadamaRicetta
La Festa del Fungo Porcino
La Festa del Fungo Porcino è celebrata in tantissimi paesi italiani, perché il fungo porcino per il suo profumo e il sapore intenso è sicuramente una festa per il palato. Protagonista indiscusso in primi o secondi, è buonissimo anche crudo tagliato sottilmente e condito con olio e pepe. MadamaRicetta, in vacanza a Moggiona vi propone le foto con le ricette classiche presentate alla manifestazione organizzata dalla pro loco, come l’insalata di funghi porcini e formaggio, e, i maccheroncini ai funghi. Moggiona è uno dei pochi paesi inseriti all’interno del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi e tra cervi, daini, caprioli, cinghiali, lupi, volpi, istrici, tassi, protagonisti indiscussi sono i profumatissimi funghi porcini. Passeggiando tra i boschi si incontrano tantissimi avventori che si improvvisano raccoglitori di funghi, e non sempre c’è da fidarsi. Per non corre rischi vi consigliamo sempre di farli controllare dalla ASL del posto o di rivolgervi a rivenditori autorizzati. In alternativa potete sempre godere dei magnifici piatti preparati dalle osterie e ristoranti del luogo, che usano funghi freschi di ottima qualità uniti alla sapienza delle cucina tradizione Toscana.
Ivana
I diti in pasta
Sono finiti i tempi in cui la cucina non era “posto da bambini” e se qualcuno ne varcava la soglia, un urlo lo fulminava all’istante: “Fuori da qui” (dopo trent’anni sento ancora nelle orecchie la voce di Nana, indimenticabile custode del focolare di mia nonna). Oggi che la cucina home made imperversa e tutti si improvvisano chef, aprono blog per pubblicare le loro ricette, trasformano i loro salotti in ristoranti occasionali (vedi www.gnammo.it), ecco che ai fornelli si affaccia con gran soddisfazione una nuova categoria: i bambini. Non i piccoli adulti stile Master Chef junior, ma i piccoli piccoli che da poco parlano e gestiscono bene la propria manualità. Cuochetti dai tre agli otto anni che ultimamente, grazie all’intuizione di qualche fine conoscitore dell’infanzia, affollano corsi di cucina ad hoc in asili e ludoteche. La scoperta la facciamo all’Auditorium della capitale nell’ambito della manifestazione Taste of Roma (18-21 settembre). Qui, già dalla precedente edizione, i genitori intenzionati a gustarsi pranzi, cene o anche solo assaggi a cinque stelle, avevano la possibilità di lasciare i pargoli all’Area Kids, dove tra scivoli ed altalene, in un apposito stand venivano organizzati corsi di cucina per bambini. Promotrice e organizzatrice, Maria Teresa Esposito, giovane mamma di tre bimbi che già da due anni si è riaffacciata al mondo del lavoro grazie a quest’idea innovativa: aprire le porte della cucina ai più piccoli. Un’idea che decisamente funziona se anche i più scatenati (e parlo per esperienza personale), davanti alla possibilità di mettere “i diti in pasta” e creare qualche piatto tutto loro, si siedono e si impegnano. “I diti in pasta” (vedi l’omonima pagina facebook) è il nome dell’attività messa su da Maria Teresa partendo dalla propria esperienza quotidiana (“i miei figli adorano aiutarmi in cucina”) e avviata in una ludoteca del quartiere africano, a Roma. Enorme il successo dei corsi organizzati e oltre 40 le ricette realizzate con i bambini. Corsi che, come spiega la promotrice, non vogliono insegnare ai bambini a cucinare, ma solo accostarli in modo divertente e creativo al mondo del cibo, facendo imparare loro tante cose nuove. Naturalmente, in massima sicurezza. Una formula che funziona anche in occasione di feste e festeggiamenti (basta con i soliti animatori!) e da tener presente in vista dei lunghi pomeriggi invernali!
C’era una volta la festa di paese
C’era una volta la festa di paese. L’avvenimento più atteso dell’anno, che aggregava non solo amici e parenti che si davano appuntamento per l’occasione, ma favoriva anche incontri nuovi rispetto a quelli di tutti i giorni. La Sagra dei tempi antichi, snobbata negli anni 80/90, è tornata di gran moda. A riportarla in auge è la crisi economica e non solo; una riscoperta degli italiani come alternativa low cost alla ristorazione tradizionale. Un menù locale, a chilometri zero e con prodotti genuini, cucinati secondo la tradizione, che spesso si mantiene tra i 10 e i 15 euro. Una vera e propria rivelazione per quasi tre italiani su quattro, poco più del 70 per cento, che rinunciando a gran parte delle vacanze, nei mesi estivi partecipano a sagre e feste di Paese. Complice è anche l’amore e l’interesse per il cibo e dintorni, di questi ultimi anni, che ha favorito un rapporto più diretto con gli alimenti e che ha sollecitato nuove curiosità sulla loro provenienza, sulla cultura e le tradizioni territoriali. Appuntamenti che, per questo, hanno visto il proliferare di mercatini locali, spesso associati a feste e sagre, volti a valorizzare i prodotti tipici: dalla frutta alla verdura; dal pesce al cinghiale; dalla pasta tipica ai dolci; dai salumi ai formaggi. Da non sottovalutare il “rito dell’assaggio”: uno spot per il venditore che cerca di conquistare il cliente attraverso il palato; un’abitudine consolidata per gli acquirenti che s’improvvisano grandi intenditori; sinonimo di gratis, o a scrocco -come si dice a Roma- per altri; o l’unico modo di mangiare per i meno fortunati.
Ivana Santomo
Quel miele che fa bene all’Italia: la ricetta di un imprenditore argentino
Un suo antenato, nell’800, lasciò la Liguria per andare a cercar fortuna in Argentina e là iniziò a produrre miele. Nove anni fa anni fa lui – Santiago Lucas Herrero – è tornato in Italia per aprire una filiale dell’azienda di famiglia, la Parodi Apicultura, in provincia di Savona. E giovedì scorso ha vinto il Money Gram Award – prestigioso premio che promuove l’imprenditoria straniera in Italia – nella Categoria Occupazione. La sua impresa (la Matrunita Mediterranea Srl) infatti, oltre a far parte di una multinazionale che gestisce circa il 5 per cento del mercato europeo del miele e il 10 per cento di quello italiano, dà lavoro a 13 persone e l’anno scorso ha visto il suo fatturato crescere del 60 per cento rispetto al 2012. Non male per i tempi che corrono. La sua storia è tutt’altro che un’eccezione. Gli immigrati titolari d’impresa oggi in Italia sono quasi 500 mila, un quinto dei quali donne. Gente che produce ricchezza, crea occupazione, rimette in moto l’economia. Tra i finalisti e i vincitori del Money Gram Award 2014 nelle diverse categorie, volti e nomi già note ai nostri lettori: il malese Suleman Diaria, classe 1986, titolare della cooperativa sociale Barikama che sulle sponde del Lago di Martignano (Roma) produce 200 litri di yogurt a settimana, e Radoslava Petrova presidente dell’unica cooperativa di pesca italiana gestita da sole donne. A tutti, complimenti, ma oggi soprattutto all’italo-argentino Santiago che ha raccolto un testimone lungo cinque generazioni e, grazie al miele, ha realizzato probabilmente il più grande sogno del suo avo: tornare nel prorpio Paese d’origine, in tempi e condizioni migliori.
Silvia Gusmano
Il caschetto di Sonia (tra vip e involtini primavera)
Il suo nome cinese significa “Aurora” ma a Roma tutti la conoscono come Sonia. “L’ho scelto – racconta – perchè è facile da pronunciare (senza ‘r’!) e ha due sillabe come la maggior parte dei nomi nel mio Paese”. Sonia Zhou è la proprietaria di Hang Zhou, uno dei ristoranti cinesi piú famosi della capitale. E’ arrivata a Roma nel 1991 per raggiungere il marito e lavorare come cameriera nel locale di un parente, in via San Martino ai Monti. In Cina, alle cure della sua mamma, ha lasciato una bimba di un anno e mezzo. Qui si è data da fare, molto e bene. Quando il suo datore di lavoro è emigrato in Germania, ha rilevato l’attività e l’ha fatta crescere di anno in anno. Fuori dalla porta del suo ristorante, sempre una gran fila. Qualche anno fa, si è trasferita in un locale più grande in via Principe Eugenio e ancora l’estate scorsa, con alcuni lavori di ristrutturazione, l’ha ampliato ulteriormente. Oggi Hang Zhou conta fino a 150 coperti e le sue pareti sono tappezzate di foto di Sonia abbracciata a vip di ogni genere: da Nanni Moretti a Massimo Ghini, da Lorella Cuccarini a Renzo Arbore. La crisi non l’ha sentita, merito, oltre che della fama del suo ristorante, anche della squadra che lo manda avanti: “praticamente tutti parenti – spiega ridendo-, da mia sorella a mia figlia, fino al pezzo da novanta: mio cognato, il cuoco”. I piatti che propongono sono una giusta via di mezzo tra il menù classico e più banale di chi mangia cinese solo ogni tanto, senza capirci molto e non va più in là del pollo alle mandorle e una discreta varietà di piatti più raffinati per i veri amanti e conoscitori del genere. Ma il segreto del ristorante e del suo successo è senz’altro lei, Sonia, che a 46 anni, già nonna di una nipote e a breve di due, sembra ancora una ragazzina. Con il suo look gioca e si diverte, sfoggiando vestiti colorati e pettinature sempre diverse (mitico il caschetto). In linea con la sua vitalità e il suo senso dell’umorismo. Anche lei è un’imprenditrice straniera, come le altre che abbiamo raccontato su queste pagine nelle scorse settimane e fa parte in quanto tale di una categoria in espansione che, a dispetto della crisi e delle statistiche sul settore, sta dando una botta di vitalità alla nostra economia in stallo. Anche lei, come Elsa, fa parte del progetto Strane Straniere (www.stranestraniere.com)
Silvia Gusmano
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