la cucina nei monasteri
Minestrine insipide e menù penitenziali?
Minestrine insipide e menù penitenziali? Tutt’altro. Antichi monasteri e bellissimi refettori, convertiti -per restare in tema- in case di accoglienza per pellegrini, si sono trasformati in veri e propri ristoranti, di rara prelibatezza. Nell’esplosione good-food del ventesimo secolo, tra i nuovi media si sono fatti strada i religiosi, dal primo calendario di frate indovino -con consigli e ricette- a “la cucina dei Pellegrini”, fino ad arrivare al best seller di suor Germana “Quando cucinano gli angeli”. Il passo dalla libreria ai blog -“dalla terra al cielo”, vendita di prodotti tipici dei monasteri- e alla tv, è breve. Sul piccolo schermo c’è ne per ogni gusto e misura da “una nuova stagione tra i fornelli insieme a don Domenico” di sat2000 a “dimagrisci con spirito!”, la tradizione alimentazione dei monaci zen, su Arturotv, fino ad arrivare a suor Stella, ospite fissa della Clerici, su Rai1 . Quale il segreto di tanto successo? Non uno, ma tanti a partire da un’aria mistica che si respira in ogni ricetta, frutto di intrugli e alchimie nascoste che alimentano la fantasia e piatti curati nel rispetto delle tradizioni. Non a caso i primi libri di ricette nascono nei monasteri medioevali, grandi centri di cultura e scrittura ma anche luogo di scambio, di informazioni e di contatto tra classi aristocratiche e popolari: dagli Abati e le Badesse di estrazione nobile ai semplici frati e monache di umili origini. Luoghi in cui la cultura si unisce all’ora et labora dei monaci benedettini. Dediti alla cura dell’orto e all’accoglienza per frati e pellegrini, gli ordini religiosi sono tra i maggiori esperti nella ristorazione collettiva, hanno saputo trasformare, attraverso ricette tramandate nei secoli, prodotti della terra in prelibati cibi e vivande. I risultati? Sulla bocca di tutti, partendo da infusi di erbe, passando per vini, oli, cioccolato, elisir, liquori, e chi più ne ha più ne metta: Cistercensi, Carmelitani scalzi, Trappisti ecc… sono arrivati al maximum con lo champagne, “Dom Perignon”, del monaco benedettino Pierre Pérignon. Con il proliferare delle crisi vocazionali, la trasformazione dei conventi diventa sempre più un business, forti della domanda di turisti più attenti a prodotti biologici e e in cerca di luoghi incontaminati dove rinfrancarsi dallo stress cittadino, monaci e frati, sempre in minor numero, affidano ad aziende esterne specializzate la produzione e la gestione dei monasteri ma sempre, assicurano, “su precise indicazioni e sotto la nostra attenta supervisione”. Insomma ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tasche. Per i ricchi e per i poveri, come chiesa insegna. Così i più fortunati possono contare su numerosi ristoranti “ispirati”: “la Croce Bianca” a Vercelli dove in un’oasi naturale e mistica si possono gustare formaggi del territorio, il riso o la polenta concia, preparata con burro d’alpeggio; “la Badessa”, in un palazzo nobiliare al centro di Torino, che offre piatti raffinati come la terrina di patate e castagne su vellutata di carciofi; e si potrebbe continuare arrivando fino in Sicilia. E per chi resta a casa, in tempi di crisi, cosa c’è di meglio del ritorno ai piatti umili, al cibo sano, alle ricette semplici di contadini e popolani. Anche riciclare gli avanzi in cucina può essere una vocazione! Non ci resta che ringraziare suore, frati e monaci per tanta dedizione, per i gustosi piatti ed i preziosi consigli, e ci complimentiamo con Abati e Badesse per le nuove ri-conversioni, ricordando loro che l’IMU è una tassa sugli immobili, benché religiosi, dedicati al business.
Ivana
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